Se Cartesio fosse ancora tra noi avrebbe modificato l’assioma cogito ergo sum – penso dunque sono – in qualcosa di diverso del tipo sono su Wikipedia, dunque esisto; oppure, semplicemente, si sarebbe fatto travolgere dall’orda cibernetica di selfie e hashtag e… addio filosofia. Fortunatamente è andata in un modo diverso e, ad oggi, possiamo ancora permetterci il lusso di fare un accurato confronto tra ciò che questa nostra umanità è stata e in cosa, oggi, si sta trasformando.
“Storie di vita al 30%” (edizioni Leima, pag. 87) di Antonella Capalbi, illustrazioni di Federica Zancato, con una intermittenza narrativa e una scrittura incalzante, ci regala un assaggio dal sapore sociologico – antropologico, della nostra società contemporanea. Un’esistenza a metà, quella vissuta dai dodici protagonisti dei racconti, appunto, al 30%.
Il titolo, “Storie di vita al 30%”, mischia la componente umana (storie di vita) a quella tecnologica (trenta per cento) regalandoci un’idea assai complessa di contemporaneità urbana che dondola tra il delirio di onnipotenza cibernetico e il sociopatico andante. Umanoidi per metà umani e metà androidi.
Il libro si presenta come una sorta di baedeker della società contemporanea e, con poche pennellate, attraverso brevi racconti, cinici e claustrofobici, ripercorre le trincee comuni della nostra realtà ridotta a cavia da laboratorio; un’umanità che ha sostituito la musica con il rumore e la presenza con il virtuale.
Di individui rimasti incastrati tra le ruote meccaniche dei Tempi moderni raccontati da Charlie Chaplin nella celebre pellicola e, assoggettati a soddisfare mode e tendenze mentre CI vediamo rotolare verso il sud di una umanità fobica e Baumaniana, liquida.
<<Di una vita passata a rincorrere ansie. Attenta alla chiave; attenta a non sbagliare il congiuntivo, se no Dario ti corregge; fai gli esami ma preoccupati del fatto che comunque sai che non troverai lavoro; usa il balsamo giusto (…). Di me che ho sempre avuto paura di tutto, anche di mangiare>>.
Quella che fa la Capalbi inoltre, è una sottile e acuta denuncia di una generazione insoddisfatta e precaria. Part-time da ogni angolazione la si osservi: dal lavoro alle relazioni sentimentali, ai rapporti umani, dalle prospettive future all’ambizione personale. Un sistema generazionale che risente di una battuta d’arresto; disposta, suo malgrado, a rinunciare a se stessa pur di sopravvivere, perché così fan tutti.
<<Costruiva un’immagine di se part-time che aveva come casa una bolla d’oscurità>>.
Le fobie costanti, frutto di insoddisfazioni e incertezze nel futuro, diventano profezie che si auto-avverano, come nel caso di Valentina, protagonista del racconto Panino al carrie che trascorre la sua vita dentro un involucro di perfezione fittizia, protesa ad una costruzione ineccepibile di sé, in virtù di ciò che gli altri desiderano per lei, mentre la sua personalità, i suoi sogni sprofondavano in un buco nero senza più risalita.
<< I visi dei suoi conoscenti, degli amici, dei parenti erano lo specchio terribile delle sue insicurezze e il groblin da affrontare ogni giorno all’interno di quel particolarissimo video gioco chiamato esistenza>>.
E, se da una parte la prospettiva di soddisfare l’appetito urbano richiede modelli sempre più standardizzati di perfezione che generano serigrafie umane di francobolli equivalenti: uomini e donne senza alcuno slancio emotivo, o tutt’al più con emozionalità programmate sulle quali lucrare o su cui creare salotti di pietismo gratuito; dall’altro lato, individui inclini ad una soddisfazione personale, risvegliatisi dal torpore della caverna platoniana, decidono di reagire.
L’atto stesso di replica ad un prototipo però, origina ansia e spaesamento nell’individuo che si trova a voler ricominciare ad essere, in libertà. Nella comunità, il gesto stesso di reazione, viene interpretato come folle ed estraniante perché sfugge all’idea primitiva che si ha dell’individuo.
Soggetti di pirandelliana memoria, come nel caso di Dotto Simone, protagonista del racconto Le parole che non ti ho Dotto il quale, dopo aver vissuto una vita in ombra, dedito solo al proprio lavoro, rompe la routine delle sue giornate.
Spezza un meccanismo ruminante che lo ha condotto ad alienarsi dalla realtà e a diventare sordo ai propri desideri mentre, inconsciamente, assorbe la grandezza del rimpianto <<di tutto ciò che non aveva fatto nella vita>>.
Tutto questo però, agli occhi degli altri, nel momento stesso della trasformazione, lo farà apparire come il <<fenomeno da baraccone dello stabile – un personaggio un po’ strambo>> sol perchè lui <<aveva quella malattia lì, la sensibilità>>.
La fragilità umana ( e fisiologica), che rispecchia una emozionalità, deve essere nascosta a favore di una austerità senza titubanze o esitazioni. Non è ammissibile alcun errore.
<<La società la voleva così determinata e sempre in corsa: chi si ferma è perduto, si ripeteva. E lei non avrebbe mandato a monte se stessa per rincorrere degli stupidi suoni>>.
Non è perdonabile arrossire per un complimento. Non è possibile sbagliare una performance, non si può perché ci sarà sempre qualcun altro pronto a rimpiazzare il primo. Dunque non si ammettono sbagli o repliche di riprese altrimenti il sipario si aprirà per qualunque altro attore, e il primo sarà solo avvertito come inetto.
Siamo in crisi di valori!
Così accade a Luca il ragazzino del racconto Goal di letto che tenta di mettere d’accordo i piani che i suoi genitori hanno in serbo per il suo futuro:
<< Bisogna affrettarsi ad essere grande, il mondo è troppo più grande di Luca, continua a girare e non aspetta che lui cresca>>.
Probabilmente andrebbe rivista anche la definizione di ‘inetto’ attribuita per anni al povero Zeno Cosini, protagonista del libro La coscienza di Zeno di Italo Svevo, perché forse la sua non era solamente inettitudine, ma incapacità di adeguarsi ad una società nella quale egli si sentiva semplicemente inadatto.

Anche le relazioni sentimentali diventato fessure di vulnerabilità. Ciò che oggi la società chiede a questa generazione è una salda razionalità, una <<disabilità emotiva>>. Un’intraprendenza che riesca a battere sul tempo gli avversari, rispettando una scadenza temporale isterica e schizofrenica. Un modello di uomo e donna, appetibile anche sessualmente, dunque privi di relazioni durature.
Un ‘amore preconfezionato – usa e getta’ del quale nessuno si prende più cura forse <<perché dietro ogni cinico c’è un romantico frustrato>>.
Eppure, in una epoca che finalmente avrebbe la possibilità di godere di una armonia chiamata libero arbitrio in cui le ‘relazione pure’ – per citare una frase del sociologo Anthony Giddens – ossia la possibilità che due individui hanno di scegliersi liberamente, in un mondo di infinite possibilità, risulta essere ancora una meta difficile da raggiungere pur essendo, forse, il legame più semplice e più appagante, poiché, come dice la stessa autrice :
<< La vita senza suono , come quella senza sentimenti, è pesante da sostenere anche per chi vuol vivere di luce propria e un percorso fatto solo di buche e senza auto radio è stremante anche per una decappottabile fiammante>>.
“Storie di vita al 30%” (edizioni Leima, pag. 87) di Antonella Capalbi, illustrazioni di Federica Zancato, è un piccolo gioiellino letterario che tocca la sensibilità di chi, di questa generazione ne fa parte; un libro per chi crede che Cartesio sia attuale, perché non basta un profilo su un social network per provare di esserci.
L’individuo è ciò che scrive, legge, afferma; e, ad onor del vero spesso chi fa la predica o elargisce consigli, su curriculum e partite di calcio, dall’alto della propria poltrona cibernetica, di castronerie ne ha dette parecchio.